AMORE GAY AI TEMPI DELLA SPAGNOLA

Ringrazio infinitamente un lettore di Parma che ha voluto trascrivere per Progetto Gay, autorizzandone la pubblicazione, alcune lettere rinvenute in una soffitta di una fattoria di sua proprietà in provincia di Parma. Si tratta di un documento toccante, cioè di una storia d’amore omosessuale ai tempi della grande guerra e dell’epidemia di spagnola del 1918-1919. Le note al testo, aggiunte da me per renderlo immediatamente comprensibile, sono tra parentesi quadre. L’omosessualità ne viene fuori come un valore. Compare anche una figura assolutamente eccezionale nel panorama dell’epoca, un avvocato bresciano eterosessuale, già capitano al tempo della guerra, che considera l’omosessualità come una cosa assolutamente naturale e aiuta due ragazzi gay, uno dei quali era stato al fronte con lui, a realizzare il loro sogno.
Quinto è un paese in provincia di Treviso, in zona non molto lontana dal fronte del Piave. Vittorio è Vittorio Veneto che allora si chiamava solo Vittorio, ed è il paese dal quale partì il grande attacco italiano che mise definitivamente in rotta le truppe austriache.
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Quinto, Domenica 25 di Maggio 1919.
Carissimo Giuseppe,
finalmente, ringraziando il Signore, ti posso scrivere qualche cosa buona. Pare che piano piano questa maledizione se ne sta andando [Si tratta della febbre influenzale spagnola, la più terribile pandemia influenzale che la storia ricordi. Nel mondo morirono di spagnola circa 20 milioni di persone, in Italia ne morirono almeno 375.000, ma se si conteggiano anche gli effetti aggravanti della influenza spagnola su altre patologie, il numero sale fino a 650.000. In alcuni paesi sparì, in quei terribili 180 giorni, tra la fine del 1918 e i primi mesi del 1919, circa il 70% della popolazione], ho perso in pratica tutta la mia famiglia, mio babbo e mia mamma, i miei due fratelli e mia sorella, Antonio di zia Bepa s’è salvato perché era andato a Valdobbiadene prima dell’inizio di questa piaga ed è rimasto lì. Ma qua in pianura han portato via tanti morti che non bastava il camposanto. Io ero ancora alle armi e quando m’han congedato babbo mi ha proprio ordinato di non tornare a Quinto, che c’eran le febbri e moriva tanta gente a mi han mandato anche me dalla Bepa e son stato là quattro mesi, ma anche là la paura era grande, non s’andava neanche alla messa la domenica. Ogni famiglia colle bestie in mezzo alla campagna e per parlare, alla voce, da lontano. Quello che è successo a Quinto lo sapevamo dal parroco che li sotterrava uno appresso che l’altro. Poi un mesetto fa ha cominciato a non morire più nessuno e i dottori ci han detto che si poteva tornare. E allora Antonio è rimasto con la zia Bepa e io sono sceso a Quinto, ma non c’era più nessuno, son stato al camposanto a vedere le croci e mi sono messo a pianger disperato che non c’era più nessuno, e anche le bestie, non c’era più nulla. Il parroco m’ha dato un po’ di soldi che eran di mio babbo e lui glieli aveva dati per me. Giuseppe, a noi non ci bastava la guerra, anche quest’altra sciagura ci voleva, noi del 95 la guerra ce la siam fatta tutta e grazie di Dio che ne avemo tirato fora i piedi e poi quest’altra maledizione. Ma adesso siamo ancora vivi e la forza ce l’abbiamo ancora. Ti ricordi il 15 quando è cominciato l’inferno, che speravamo di andare alla guerra insieme, ma che si sapeva noi della guerra, c’avevan contato tante balle, ma noi ci credevamo e poi al fronte a uscire dalla trincea a pregare tutti i santi che ci sparavano a mitraglia, Giuseppe noi siamo sopravvissuti all’inferno dell’Isonzo e a Caporetto e benedetto sia Diaz che la Patria l’ha salvata lui, che noi ormai combattevamo proprio per la disperazione perché ormai in Veneto, la terra nostra, proprio quella di casa nostra, la vedevamo già in mano agli Austriaci. Però quando è arrivato Diaz per noi è stata tremenda, tu da una parte e io dall’altra ma a questi assassini che hanno impiccato Battisti [Cesare Battisti, patriota irredentista italiano, impiccato degli Austriaci a Trento il 12 luglio 1916] li abbiamo cacciati fuori dalla nostra Patria. Noi stavamo sull’Isonzo alla fine del 16 e te lo ricordi quando ci dissero che era morto Cecco Peppe [Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, morto il 18 novembre 1916 ] abbiamo tutti alzato la bandiera e pensavano che la guerra sarebbe finita ma non è mica finita. Quanto ho pensato a te nella trincea e non ti potevo neanche scrivere che le lettere erano solo per la famiglia, e pregavo Dio dalla mattina alla sera di farci salvi tutti e due e se uno se ne doveva prendere che si prendesse me, che io senza Giuseppe non ci potevo vivere. Sono stati anni brutti, Giuseppe, senza di te, e poi alla sera del 4 Novembre dell’anno passato, che ci hanno fatti mettere tutti schierati e il colonnello ha letto il telegramma della vittoria, son proprio scoppiato a piangere come una creatura ma piangevano proprio tutti, era finita la guerra e eravamo vivi! Io pensavo solo a te, pregavo Dio che ti potevo rivedere. Mi son fatto coraggio e sono andato al telegrafista e l’ho pregato di chiedere del soldato Giuseppe B. ma mi ha detto che la confusione era tale che nessuno avrebbe potuto avere notizie di un singolo soldato. Pensavo che ci congedassero subito e ti sarei venuto a cercare ma non sapevo dove e allora ho scritto al parroco per sapere tue notizie e mi ha detto che tu gli avevi scritto dopo l’armistizio e che eri vivo e stavi a Vittorio e ci saremmo rivisti a Quinto tra poco ma il congedo ritardava di settimana in settimana e nel disastro è stata una cosa buona, proprio in quei giorni è morta mamma e papà mi ha scritto che non dovevo tornare a Quinto se non fossero passate le febbri, poi in cinque giorni sono morti tutti. Quando ho letto la lettera del parroco mi son messo a piangere disperato che m’ha visto il capitano e s’è seduto vicino a me e gli ho fatto leggere la lettera e m’ha abbracciato forte. Adesso ho solo te e so dal parroco che sei ancora a Vittorio, per fortuna la tua mamma non se l’è presa il Signore come il tuo caro babbo. Angiolino poveretto se l’è preso la guerra, ho saputo anche questo, e pure a te ti resta solo la mamma. Non vedo l’ora di riabbracciarti ma non mi riconosci che la guerra m’ha fatto brutto, sono stato ferito al braccio sinistro ma lo muovo bene però m’è rimasta un grossa cicatrice di una scheggia e già è molto che sono sopravvissuto, così m’ha detto il chirurgo, che era una ferita brutta. Non vedo l’ora e il momento che ti posso riabbracciare che se Dio c’ha fatto questo miracolo che c’ha fatto campare questo è segno che noi ci dobbiamo volere bene. Ti voglio bene, Giuseppe, come un fratello e più che un fratello.
Antonio

Vittorio, Venerdì 6 di Giugno 1919
Carissimo Antonio mio,
la lettera tua l’ho avuta ieri che facevi prima a venire tu a piedi a portarmela. La felicità che ho provato la sai bene, adesso noi siamo vivi e di quelli che non ci stanno più se n’è perso il conto. Antonio, quanto ti vorrei abbracciare ma io devo stare qua col reggimento ma dicono che tra poco ci congedano definitivamente. Metticelo tu un fiore sulla croce di mio babbo e dilla una preghiera per Angiolino che lui non c’ha manco la croce e chissà dove sta, povero fratello mio, lui è morto a 21 anno, possa guardarci dal paradiso. Quello che ho passato io è stato brutto ma non è stato proprio terribile, quello che ho visto invece è stato proprio terribile. Io facevo l’infermiere e ne ho visto di ragazzi morire, arrivavano con una ferita che sembrava poca cosa, noi facevamo il possibile ma puoi immaginare le condizioni igieniche, la ferita si infettava e i ragazzi morivano, quasi le metà dei feriti moriva in un paio di giorni. Se mi ricordo di quelle cose mi passa pure la voglia di vivere, non me le potrò più scordare. Noi siamo andati alla guerra senza capire niente e abbiamo visto l’inferno, proprio l’inferno. Antonio adesso t’abbraccerei e ti bacerei perché non voglio pensare ai morti che non me li scorderò più ma voglio pensare a Antonio mio. Il capitano medico mi ha detto che da civile potrei lavorare in ospedale a Treviso perché se hai fatto la guerra in sanità il posto ti spetta, ma io voglio tornare a Quinto e voglio stare abbracciato con te il resto della vita, tu hai un podere bello grosso, quello mio sta attaccato e quello è il segno che pure noi dobbiamo essere una cosa sola. Che dirà la gente noi non lo sappiamo, ma noi non dobbiamo avere paura di nessuno e poi a te è rimasta solo la zia Bepa a Voldobbiadene e a me è rimasta solo mia mamma che è vecchia e ha quasi sessant’anni. Mia mamma può stare con noi, poi gli altri parenti sono lontani e sono tutti vecchi, oppure si può vender via tutto, il tuo e il mio, e andare in un altro posto anche se mia mamma dice sempre che lei vuol morire qui. Noi siamo solo due e in più dobbiamo pensare a mia mamma ma siamo giovani e la voglia di lavorare non ci manca e poi tu a casa tua e io a casa mia con mia mamma ma tutta la giornata si lavora insieme, un po’di soldi per compare un po’ di bestie ci sono e io penso che si potrebbe vivere bene. Ma c’è una cosa che mi fa stare male, il parroco m’ha scritto che c’è la figlia della Gina, che ha vent’anni e che ci terrebbe tanto a conoscermi, e m’ha scritto proprio così “che se non è lei è un’altra, stai sereno che ti accasiamo.” E questa cosa mi fa stare male, non ci voleva proprio e qui in paese di uomini specie giovani ce n’è rimasti poco e niente e di donne ce n’è tante. Non mi piace mica questa storia, se la voglio io una donna, me la scelgo io e se non la voglio sto senza, non è mica un dovere e io non ne ho nessuna intenzione. Se io vendo via tutto e me ne vado da Quinto tu che fai? Avevo pensato di andare dalle parti di Parma e comprare un po’ di terra lì, poi ci si potrebbe dare da fare che noi con gli animali ci sappiamo fare. Ti prego di rispondermi appena ricevi questa mia perché sto troppo in ansia ad aspettare. Ti voglio bene pure io come un fratello e più di un fratello. Ti faccio tanti tanti auguri per il santo tuo che è oggi a otto! Penso di poter stare a Quinto alla fine di Giugno, ormai sembra una cosa certa.
Tuo Giuseppe

Quinto, Venerdì 13 di Giugno 1919.
Carissimo Giuseppe,
grazie degli auguri che ormai posso ricevere solo da te che sei la mia famiglia. Ho pensato alle cose che hai scritto e, da certe cose che dice e che lascia intendere, mi pare che il parroco abbia pensato ad ammogliare anche me, quindi ce ne dobbiamo proprio andare perché qua non riusciremmo a vivere. Non vedo l’ora e il momento che ti posso riabbracciare. Appena tu vieni qua ci facciamo consigliare da un capitano che ho conosciuto al fronte e che fa l’avvocato a Brescia, gli ho scritto e mi ha detto che ci aiuta lui per tutte le cose degli atti, è una brava persona e me ne fido, ha detto che non vuole essere pagato perché quando hai visto la guerre a la morte da vicino quando torni civile non è più come prima. Noi al parroco non diciamo niente, quanto tu vieni a Quinto, la prima cosa scriviamo al capitano, andiamo a Brescia e gli portiamo tutte le carte e ha detto che ci pensa lui e poi io penso che ci sia già uno che la terra se la vuole comprare, perché ce ne ha già un pezzo grande al confine tuo e mio, è uno ricco che non ci possiamo trattare noi, lui già m’ha fatto arrivare la voce dal parroco. Comunque la terra la dobbiamo vendere, non la dobbiamo buttare via. Giuseppe, allora, benedetto Iddio, ci vediamo da qui a due settimane al massimo, che cosa bella che ti posso abbracciare, ti voglio tenere stretto a me! Benedetto Iddio che siamo ancora vivi!
Antonio

Brescia, Martedì 4 Novembre 1919.
Carissimo Giuseppe,
oggi è una giornata grande per noi. E sai a quanto la vendiamo? Noi avevamo detto non meno di 30 mila lire la mia e non meno di 20 mila lire la tua, ma il capitano ha fatto tutto lui e ci facciamo esattamente una volta e mezzo, 45 mila lire la mia e 30 mila lire la tua. Ma adesso ti racconto tutto quanto. Il capitano ha scritto al sig. F. dicendogli che era sto informato della sua intenzione di comprare i nostri terreni, ma colla carta stampata da avvocato, e gli diceva che aveva avuto mandato a trattare per nostro conto. Il sig. F. gli ha risposto chiedendogli il prezzo ma lui non glielo ha detto e lo ha invitato a Brescia al suo studio per incontrare anche me. Ecco perché m’ha telegrafato di andare di corsa. Poi mi ha spiegato tutto quello che dovevo dire, m’ha dato da mettere un vestito suo bellissimo e delle scarpe che non ne ho mai viste così, m’ha mandato dal barbiere, e mi hanno sistemato pure le mani, sembravo un figurino. Poi ci siamo messi nel salotto, coi tappeti per terra e i quadri e la cameriera ci ha portato il caffè, quando è arrivato il signor F. ci siamo presentati, il capitano ha detto che eravamo amici anche prima della guerra e che le nostre famiglie si conoscono da generazioni, ha fatto proprio tutto lui, poi dopo un po’ di convenevoli siamo arrivati al punto, ci siamo seduti al tavolo e il capitano ha detto che la nostra proposta era di cento mila lire per tutti e due i terreni insieme, che dovevano essere venduti per forza insieme perché io sarei andato con il mio socio ad aprire un’azienda agricola a Parma. Il sig. F. ha allargato le braccia e ha detto che a quel prezzo non se la sentiva proprio, e qua è venuto il colpo da maestro del capitano è entrata la domestica e gli ha detto che c’era al telefono l’avvocato T. per la vendita dei terreni di Quinto e lui ha alzato il telefono e ha risposto che siccome l’altro possibile acquirente non se la sentiva di procedere all’acquisto la cosa si sarebbe potuta concludere. Quando ha messo giù il telefono, il sig. F. si è sentito preso in contropiede e ha chiesto che prezzo era disposto a pagare l’avvocato T. ma il capitano ha risposto che la trattativa con l’avvocato T. è cosa tra noi e l’avvocato T, che lui facesse invece la sua proposta e poi si sarebbero valutate le condizioni migliori. Allora F. ha detto 70 in tutto. Io gli avrei detto subito sì ma il capitano ha preso tempo e gli ha detto che gli avrebbe fatto sapere. F. sarebbe rimasto a Brescia un giorno in più per avere la risposta. Poi F. è andato via e il capitano mi ha spiegato che l’avvocato T. è un suo amico e che erano d’accordo che lo avrebbe chiamato a quell’ora, ma l’avvocato T. con i terreni non ‘entrava per niente, insomma era una cosa combinata. Nel pomeriggio il capitano ha chiamato F. in albergo e gli ha detto che si sarebbe potuto concludere per 75 e F. alla fine ha accettato e ci siamo rivisti tutti e tre in serata e l’avvocato gli ha fatto firmare una carta che però non era il contratto, ma un impegno ad acquistare, e c’era anche una caparra di 15 mila lire e F. ha fatto un assegno all’avvocato di 15 mila lire. L’atto definitivo si farà entro Novembre, intanto il capitano ha cercato di vedere per un pezzo di terra grande a Parma, un po’ in collina e pare che lo abbiamo trovato e che deve essere pascolo ottimo. Dobbiamo andare a vederlo tra due giorni. Poi lo sai che è successa pure un’altra cosa, ho detto di noi due al capitano, hai capito bene, e m’ha detto che siamo persone come si deve e che se può fare qualcosa per noi lo farà certamente. Gli ho chiesto come potevamo sdebitarci ma ha detto che quello che aveva fatto lui un amico lo deve fare se no non è un amico. Lui è sposato e ha due bambine grandine e ha detto che il fatto che la Spagnola non si sia portata via nessuno della sua famiglia lo fa sentire in debito verso chi è stato meno fortunato. Giuseppe, se Dio vuole, alla fine di Novembre o al massimo all’inizio dell’anno venturo noi possiamo stare veramente insieme. E con 75 mila lire possiamo mettere in piedi una bella fattoria e possiamo cominciare una vita veramente nostra. Ti penso ogni momento! Giuseppe io penso che nessuno si senta meglio di come mi sento io in questo momento. Ti voglio un bene immenso.
Oggi è un anno dalla vittoria, Viva l’Italia!
Antonio

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AMORE GAY AI TEMPI DELLA SPAGNOLAultima modifica: 2012-07-05T13:33:37+02:00da gayproject
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